Dare un nome alle cose ed alle persone, assegnare un ruolo ben definito, catalogare per generi e sottogeneri. Questi semplici automatismi sono allo stesso tempo fondamentali e fuorvianti per la comprensione della realtà fisica e sociale. Ogni singolo individuo sente il bisogno di ordinare conoscenze ed esperienze per meglio comprendere il quotidiano, per identificare se stesso e gli altri, per differenziarsi e sottrarsi a determinate categorie sino ad essere relegato in altre. L’uomo obbedisce alla ragione visiva di schemi, prototipi e stereotipi che lo aiutano a sviluppare un’immagine coerente con la propria identità sessuale o politica, religiosa o artistica. La natura umana è però un nero fiume in continuo tumulto, uno scorrere incessante che modifica gli argini dell’ego sovvertendo le geografie emozionali. Dunque un’entità difficile da classificare proprio per la sua mutabilità ed imprevedibilità, come impossibile è il conoscere qualcosa che cambia continuamente davanti ai nostri occhi.
Loverkillerloop analizza i delicati meccanismi psichici e sociali che agiscono sull’essere umano. Il modus operandi è netto e deciso nella negazione dei concetti di catalogazione e nella oggettivazione della materia grezza come elemento al di là della materia stessa e quindi inclassificabile. Jessica Iapino pone lo spettatore innanzi ad una profonda riflessione, se si è in grado di assegnare un ruolo od un nome preciso può quindi esistere una condizione al di fuori della nominabilità, una sorta di limbo senza il quale sarebbe inutile sentire il bisogno di etichettare una data cosa. Nell’algida ed anonima aura di tale luogo empirico si muovono i protagonisti del video in stop and motion e delle microambientazioni scultoree. Uno scenario privo di riconoscibili appigli architettonici ed immerso in toni di bianco e grigio che sembrano voler riprodurre uno stato emozionale, una raffigurazione dell’identità psichica piuttosto che un reale ambiente scenico. All’interno di questo teatro mentale agiscono due soggetti, completamente simili al punto di essere confusi tra loro o essere inglobati in un unico organismo ambivalente. Doppia personalità, doppia identità e doppia visione filmica che riorganizza i punti cardinali di ogni consuetudine.
Jessica Iapino evita il ruolo fisso e la trama ben delineata, ciò che possiamo scorgere è il lento e spasmodico incedere di un dramma in atto unico. Un fatto di sangue senza l’effettivo scorrere del rosso liquido, perso anch’esso nel grigio delle circostanze. Ed in questo atemporale e schizofrenico scorrere di eventi si perde la dimensione stessa delle cose, i soggetti si muovono in compartimenti stagni senza mai incontrarsi ma allo stesso tempo si osservano in un voyeurismo autoindotto, si cercano e si attraggono verso un punto comune, come se la loro ricerca fosse un tentativo di riflettersi a vicenda nello specchio dei propri sentimenti.
L’epilogo è un omicidio in cui si perdono e si mescolano sino a fondersi l’un l’altra le figure di vittima e carnefice. Attorno a questa scena Jessica Iapino tesse la sua trama simbolica inserendo il lilium, rappresentazione di candore e purezza ed allo stesso tempo allegoria dell’organo riproduttivo e della sessualità doppia. Ancora una volta la catalogazione delle cose sfugge, si perde nel fiore che avviluppa e chiama i corpi dei personaggi sino a guidarne le azioni e a decretarne la morte. La sessualità si confonde con l’amore, le personalità si intersecano e si perdono perché prive di stereotipi da cui attingere modelli comportamentali, di nuovo la vittima è anche carnefice poiché non conosce la definizione e la distinzione esatta delle due condizioni. Tutto ricomincia in un’interminabile loop, reiterazione straniante del guardarsi e non toccarsi se non mediante un fiore che striscia attraverso dissimili significati.
Jessica Iapino piega la tecnica rappresentativa per portarla alla dimensione dell’opera, l’animazione frame by frame in velocità dissimili contribuisce a distorcere l’impianto narrativo e a scomporre freneticamente l’immagine, la divisione della scena in due separate proiezioni accentua il dualismo visivo e psichico mettendo in risalto l’alienazione e la spasmodica ricerca dei personaggi. Le forme scultoree sono spartane e primordiali, plasmate con il pongo che nasconde ogni carattere distintivo e copre di bianco ogni possibile stato emozionale.
Sotto l’influenza di asettici elementi ed estrema asciuttezza visiva uniti alla mancanza di esempi ideologici e comportamentali, la percezione della realtà è inevitabilmente alterata. Ed in questa condizione al di fuori della nominabilità delle cose Jessica Iapino ci costringe a guardare togliendo la possibilità di catalogare per generi e sottogeneri, di assegnare un ruolo ben definito poiché questo non è ciò di cui abbiamo realmente bisogno.
Micol Di Veroli