“Nessuna differenza fra l’essere e il non-essere, se si percepiscono con pari intensità.
”
Emil M. Cioran
Con l’avvento dell’era tecnoliquida descritta da Bauman (2002), l’esigenza di tutelare la propria privatezza – tanto da farla elevare al rango di diritto con la conseguente necessità di regolamentarne la tutela – ha raggiunto il suo apice proprio nel momento in cui se ne avvertiva l’ineluttabile erosione. La pervasività, a partire dal XXI secolo, dell’immagine, dell’informazione e soprattutto della tecnologia, ha assottigliato sempre più la barriera della nostra privacy. Come suggeriva il sociologo, l’uomo contemporaneo abita una “società confessionale”, dove i “social network”, strumento di sorveglianza dei pensieri e delle emozioni – usato dai vari poteri con funzioni di controllo, agisce grazie alla partecipazione entusiastica di chi vi aderisce promuovendo la pubblica esposizione di sé. Un paradosso evidenziato da Umberto Eco quando scriveva: “Siamo ossessionati dalla difesa della riservatezza contro un Grande Fratello (alla Orwell) che ci osserva e ci ascolta”. Ma in realtà tutti vogliamo farci vedere. Perché apparire, anche mostrando il peggio di sé, è diventato l’unico modo per esistere”.
Le occasioni di violazione della privacy o di semplici interferenze nella sfera privata di fatto accompagnano quasi ogni istante della nostra vita, “monitorata”, tenuta sotto osservazione, incessantemente registrata. Cediamo notizie che ci riguardano, lasciamo tracce quando cerchiamo informazioni, servizi, quando ci muoviamo nello spazio reale o virtuale. Questa gran massa di dati personali raccolta su scala sempre più larga e diffusa con flusso continuo, modifica la conoscenza. Il confine tra reale e virtuale, tra vero e falso, tra immagine e persona si fonde e confonde in una concezione di sé tremula e liquida, polimorfa, priva di certezze. Si altera cioè quel processo (continuamente rivedibile) di identificazione con i modelli proposti dall’ambiente che forma l’identità.
Nel cyberspazio, impero del narcisismo, le relazioni sociali rischiano di configurarsi come una mera imitazione della vita face-to-face, dove è più facile dissimulare e nascondersi dietro l’anonimato o un profilo fake. “Siamo sempre più attratti dall’idea di “ricrearci” con l’aiuto di strumenti social e fotografici a portata di tutti – scrive Jessica Iapino nel suo progetto Auto Violation Privacy – fino a perdere gravemente la percezione di una quotidianità privata intima. Creando poi uno specchio parallelo digitale, conosciamo il prossimo attraverso ciò che “posta” e non attraverso l’osservazione e il vissuto. Preferiamo il filtro di un monitor credendo che possa sostituire un incontro reale. Costruiamo situazioni distorte dando a noi stessi il permesso di non esistere; di “non essere” davvero, ma di essere strumento di noi stessi e anche degli altri per un’identità “disegnabile” e interpretabile da chi non ci consocerà mai.”
Da queste riflessioni si è sviluppata la ricerca dell’artista romana, che sfocia in una personale presso Interno 14. Un percorso espositivo site-specific che si articola in quattro momenti disgiunti tra loro per la variabilità del mezzo, trovando felice consonanza nei quattro ambienti che compongono la sede espositiva. Con l’ausilio della pratica artistica, Iapino attua in metafora una consapevole violazione della propria e della altrui identità (nella quale di volta in volta si identifica), con l’intento di ristabilirne una “nuova”. Ripercorrendo alcuni “modelli” della costruzione identitaria, auspica di “ri-nascere, di ri-stabilirsi con una possibile funzione altra che le consenta di ritrovare senso e anche di assolvere il prossimo e di autoassolversi. A cominciare dall’autoritratto con maschera in negativo di se stessa, dove attraverso l’azione minimale del video mostra e dimostra di voler riscattare la propria immagine. La scultura rappresenta invece la violazione di una identità “sacra”, perché elevata a oggetto prezioso con la foglia d’oro zecchino. Nella performance statica “SSS”, la donna distesa per terra è simbolo di una morte apparente, preannunciata dai gioielli che indossa raffiguranti la nostra terra spezzata. Infine con l’installazione “My Name is Omar”, attraverso il nome l’artista riscrive la storia della propria unicità superando anche il conflitto di genere.
1 . STANZA DELLA IDENTITA’ GENOTIPICA
“SELF PORTRAIT W/ MASK”
video installazione 2017, video mono canale 7:24”
foto di produzione 2017, giclée print su baryta museum, 60 cm X 40 cm
Nel video, l’inquadratura fissa riproduce un atto performativo minimale: l’artista scuote la testa tenendo in bocca tra i denti una maschera in alginato bianco che raffigura il gemello corrotto, l’ombra da reintegrare. L’azione richiama le movenze di un cane in cerca di carezze, di attenzione e approvazione.
2. STANZA DELLA IDENTITA’ SACRA
“IL BUONGIORNO HA L’ORO IN BOCCA”
scultura 2017, porcellana, foglia d’oro 23 ¾ kt, 25 cm X 30 cm
Il ritratto scultura di porcellana, materiale sofisticato e puro ricoperto da foglia d’oro zecchino, sacralizza e viola al tempo stesso la funzione iconica ordinatrice del caos a difesa di un falso idolo, enfatizzato in quel legame identitario che si inscrive negli accessi remoti ed insieme attuali dell’archetipo.
3. STANZA DELLA IDENTITA’ SOCIALE
“SSS” – STIVALE, SARDEGNA, SICILIA
performance/gioiello-scultura 2018, bronzo, dimensioni variabili
L’identità sociale è quella che coinvolge tutti: l’Italia qui è fatta a pezzi nel gioiello indossato da una figura femminile contrassegnata dai colori della stessa bandiera che giace a terra al centro della sala. Immobile.
4. STANZA DELLA IDENTITA’ DI GENERE
“MY NAME IS OMAR”
installazione, 2018, carta, inchiostro, dimensioni variabili
L’installazione collettiva dei libri bianchi “My Name is Omar” sarà una forma di Battesimo o meglio un “auto battesimo”: i presenti saranno invitati a prendere una copia del libro e a scriverci dentro ogni nome che avrebbero voluto avere, oppure, a porre dei segni e/o disegni che meglio li rappresentino.
Cancellare ogni tipo di caratteristiche dall’individuo, ma allo stesso tempo valorizzarne ogni dettaglio. Riportare ogni persona in uno stato precedente al concepimento. Uno stato “bianco e nero” dove si è liberi di mostrare ciò che si vuole mostrare di sé e non solo ciò che gli altri vedono.
Lori Adragna
Jessica Iapino (Roma, 1979), tra le prime artiste a nascere con la rete nel DNA, tanto da ribadirne già nel 2010 – con riprese simultanee, citazioni, voci e volti – prepotenza, sensibilità e rischi, torna, con più calcolato e enciclopedico ritmo, ad affrontare questo tema, in tempi odierni più apparentemente alla portata di tutti.
In quattro sale il suo percorso scandito da colpi secchi, simili a martellate, metafore dalla doppia valenza: Jessica Iapino sembra possedere uno ‘shining’ che le permette di vedere le cose, così autobiografiche da divenire dolorose, e simultaneamente, al contrario, gelide metafore di altrui vizi e comportamenti. Ambiguità o bivalenza in ogni stanza, in ogni dimensione emotiva e con qualsiasi mezzo formale. Il suo ‘tema’ insegue però la strada di un’unica ‘costruzione identitaria’, come scrive Lori Adragna, curatrice della mostra: “ri-nascere, ri-stabilirsi con una possibile funzione altra che le consenta di ritrovare senso e anche di assolvere il prossimo e di autoassolversi”.
La partenza nella stanza dell’identità Genotipica, un autoritratto in video: è Jessica stessa cui la bocca viene tappata da una maschera in alginato bianco. La scuote ma non se ne libera, come una cane che gioca con l’osso, desiderandolo e detestandolo al tempo stesso. Nessuno interviene a salvarla, nei suoi occhi un’impotenza tutta mosse e scosse, fino alla liberazione dopo un tempo, infinito o brevissimo: esattamente sette minuti. Ora Jessica è libera e la gommosa maschera un’ombra caduta a terra e fotografata nella polvere.
Al secondo step è lei che guarda altrove, con un’identità altrui che diventa (forse) ‘sacra’: il ritratto-scultura di porcellana del celebre avvocato Giulia Bongiorno, ricoperto di foglia d’oro zecchino, sacralizzata e appoggiata su due chiodi di ferro di cristiana memoria. Non sappiamo, nè sapremo, se per l’artista è un idolo o un nemico: certamente resta un doppio rimando dal sapore ambiguo. Nella terza stanza la performance che rimanda all’identità sociale: il nostro straziato stivale, l’Italia, steso a terra in forma di donna, immobile, ingioiellata con tre bronzi geografici, ma ancora una volta ininterpretabile poichè dormiente, esausta, viva o morta.
Infine la possibile soluzione, secca, asciutta e finalmente innocente: l’installazione di libri bianchi dal titolo “My Name is Omar”. Scrive l’artista: “Uno stato “bianco e nero” dove si è liberi di mostrare ciò che si vuole mostrare di sé e non solo ciò che gli altri vedono”. Tutte le pagine sono da riscrivere, così come la propria identità, contrassegnata da un titolo con un nome, voluto da qualcun altro o con la volontà di essere definita altro da se stessa?
Quattro tappe che diventano anche un giallo ad incastro, dove individuare vittime e (virtuali) assassini, fantasmi che traboccano da un sistema invisibile ma inevitabilmente schiacciante e fuorviante, nessuno ancora sa quanto celestiale o deleterio.
Claudia Colasanti